Epoi di punto in bianco, senza alcuna logica, qualcuno prova a far sparire il mondo che lo ha preceduto e cambia il corso della Storia dell’arte. L’11 marzo 1915 Giacomo Balla e Fortunato Depero si firmavano “astrattisti futuristi” in calce al Manifesto della Ricostruzione Futurista dell’Universo: in due parole la figurazione artistica diventava preistoria, insieme all’arte conosciuta fino ad allora e alla sua polverosa nostalgia di mito e sentimenti perduti. In bombetta e redingote, i futuristi hanno assaltato il Chiaro di luna, emblema di un mondo passatista da rovesciare, abbagliati dalla modernità delle “violente lune elettriche” degli arsenali e dei cantieri. Brutalmente visionari e arroganti come la gioventù sa essere, hanno demolito il mondo per ricrearlo attraverso un’arte che nelle loro mani è diventata “salto mortale, schiaffo, pugno”, danza di geometrie in movimento.

Velocità, simultaneità, compenetrazione: i cardini del Futurismo sono raccontati in mostra attraverso una selezione di cento opere non solo dei suoi esponenti più celebri (Umberto BoccioniGiacomo BallaLuigi RussoloCarlo CarràFortunato DeperoAntonio Sant’EliaGino SeveriniMario Sironi) ma anche dei meno noti al pubblico, arricchita da prestiti d’eccezione provenienti dal Museo del Novecento di Milano, dal Mart di Rovereto, dalla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, dagli Uffizi, da Brera, dalla Fondazione Biagiotti, fino al Kröller-Müller Museum di Otterlo, per citarne solo alcuni.

Il risveglio dell’arte si gioca nella quotidianità delle metropoli industriali ed è strappo con il passato pur nel rispetto delle radici simboliste, nell’appropriazione della pennellata divisionista di SegantiniPreviati e Pellizza da Volpedo, nel furto delle scomposizioni cubiste. Con questi presupposti, al secondo Novecento questi artisti hanno consegnato il futuro dell’arte, scovato nel non visibile della realtà, fuori dai confini del quadro e oltre la materia della scultura. L’uomo futurista è il titano di Boccioni, meteora in fiamme che attraversa il Novecento (in mostra Forme uniche della continuità nello spazio), è uno dei suoi Stati d’animo, in cui campi di energie si mescolano forsennatamente tra occultismo e misticismo, anche solo per un momento, e si ha quasi l’impressione che il mondo possa davvero ricominciare da capo nel vortice di capelli di una donna bellissima. L’uomo moderno è un rumore di Russolo che diventa musica; si è scrollato di dosso la moda imbalsamata per indossare la propria identità cucita sugli abiti di Balla, sgargianti con i “colori dell’audacia e del rischio futurista”.

Non c’è mondo nuovo senza conflitto, la Storia lo insegna da millenni e ancora non si smentisce: la guerra auspicata dai futuristi è catarsi, palingenesi necessaria per la nascita di una nuova civiltà sulle ceneri della cultura borghese dell’impero austro-ungarico morente. Ma la cieca fiducia di questi artisti nella guerra sarebbe stata sconfessata di lì a poco dagli orrori del primo conflitto mondiale, dinanzi ai quali Carrà e Severini rinnegano lo stesso futurismo. L’orchestra dei suoni del campo di battaglia sotto la direzione di Marinetti diventa poesia: Zang Tumb Tumb, riecheggiano le mitragliatrici delle Parolibere, mentre quelle vere falciano le giovani vite di Boccioni (caduto da cavallo durante un’esercitazione) e Sant’Elia.

I futuristi hanno saputo vedere il mondo (im)perfetto che sarebbe stato davvero possibile di lì a cento anni. Hanno ripensato l’universo dopo averlo fatto crollare ma il mondo rimane fedele alle sue contraddizioni e ricostruirlo davvero, migliore magari, quella è tutta un’altra storia.